Sono anni che non vedo Karate kid, ma è impossibile dimenticare questa frase e il suo significato all’interno del film. Nel nostro lavoro al centro, l’insegnante assume per molti versi il ruolo di un allenatore, proprio come il maestro Miyagi, soprattutto in vista di determinati obiettivi: compiti in classe, esami, test d’ingresso, debiti formativi. E un bravo allenatore sa che il suo atleta non andrà da nessuna parte senza averlo fatto allenare a dovere per la sfida che sta per affrontare: no, non facciamo correre gli studenti, ma gli diamo dei compiti. Ora che ho scritto questa parola ripenso agli sproloqui letti nei giorni scorsi sui social in merito a questo tema e, trovandomi in una terra di mezzo dove non sono l’insegnante che mette i voti sul registro, ma una persona a servizio dello studente e dei suoi genitori che deve colmare lacune, potenziare e preparare lo studente per ciò che dovrà affrontare, mi sento di dire “Sì” ai compiti.
Esaminiamo però i due schieramenti:
Partiamo da un presupposto molto semplice: da quando si inizia la prima elementare fino a quando non si affronta l’ultimo anno di scuola, studiare rappresenta il primo prototipo di lavoro che un ragazzo si trova ad affrontare. Ha una serie di obblighi: frequentare le lezioni arrivando in orario e giustificando le assenze, comportarsi educatamente con insegnanti e compagni e svolgere quanto assegnato dagli insegnanti. Avrà anche una retribuzione: un’istruzione, il cui valore è incalcolabile. Questa retribuzione però va guadagnata e, se da una parte l’insegnante è lì per offrire agli studenti le conoscenze di cui necessiteranno, sta agli studenti farle proprie. Ci sono molti modi in cui questo può avvenire: chi impara di più ascoltando, chi impara di più guardando e chi impara di più facendo esperienza. Quando si è piccoli non si ha una perfetta percezione delle proprie capacità e quindi bisogna usarle per imparare a conoscere sé stessi e il proprio modo di imparare. I compiti a casa permettono di sviluppare proprio questa consapevolezza: lo studente di fronte al compito nei primi periodi farà fatica, ma poi capirà in quale modo svolgere il proprio lavoro in maniera ottimale per lui.
Per quanto riguarda l’eccessivo impegno che i compiti oggi richiedono, la memoria per molti è corta, ma il motivo è molto semplice: una volta che si va a lavorare si pensa a quello della scuola come un periodo felice e spensierato, ma la lente della nostalgia potrebbe distorcere incredibilmente questo ricordo. L’impegno richiesto a questi ragazzi è aumentato non perché siano aumentati i compiti, ma perché il peso delle attività extrascolastiche è aumentato talmente tanto da cambiare in molti casi le priorità e io qui lo vedo molto bene: quando devono prendere appuntamenti per le lezioni fanno sempre in modo di non mancare mai a tutti gli altri impegni che hanno. È fantastico che abbiano la pazienza di districarsi tra tutte queste attività, ma non è detto che possano essere portate tutte avanti con successo, qualcuna verrà necessariamente penalizzata e molto spesso si tratta proprio dello studio.
Veniamo poi a un punto per me molto importante: l’autonomia. L’insegnante che spiega come si fa un problema di geometria poi verificherà che lo studente lo sappia fare da solo e se lui non si è esercitato abbastanza come potrà riuscirci? Spesso i miei studenti mi sentono dire la frase “Ricordate che io non verrò a fare il compito insieme a voi”, quindi anche il mio lavoro presuppone che loro lavorino in maniera indipendente al termine della lezione. Durante l’estate, periodo in cui ci occupiamo dei debiti formativi, sono solita dare tantissimi esercizi e sono molto esigente, infatti le regole sono:
Altro che dare la cera!
I compiti servono ai ragazzi per allenarli pian piano a tutto quello che c’è dopo: esame di maturità, esami all’università, concorsi e lavoro. Nessuno di noi si sognerebbe mai di dire a un atleta di non allenarsi prima di una gara o a un musicista di non provare prima di un concerto.
E voi come la pensate? Compiti sì o compiti no?